E ancora una volta gli fui grato di una notizia che mi risparmiava l'odiosa incombenza di caragnare in anticipo.
Nulla di più imbarazzante, nulla di più vile. Al diavolo voi che vorreste chiudere le pagine ancor prima che siano scritte!
Ma ora Peppìn è morto per davvero, e ricordarlo bisogna, dire chi era, che cosa ha fatto, e cercar di non piangere perché sarebbe falso: nessuno crederebbe che piangi per lui.
Contela giusta, Gioânn: col Peppìn e passata la tua vita.
E allora, via, parliamone come di un fenomeno che poco poco ha inciso sul nostro costume.
Personalmente, ho finito addirittura per giocare con lui, ormai facevamo ridere entrambi; ma chiunque, ragazzino, abbia pedatato negli anni trenta, almeno per un istante, un'ora, un anno ha provato a mitizzare se stesso nel suo nome.
Perché Peppìn Meazza e il football, anzi "el folber" per tutti gli italiani.
Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, pero non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario.
Era nato nel 1910, di fine agosto, a Porta Vittoria, non so in quale via. Sua madre aveva nome Ersilia e veniva da Mediglia, nella Bassa di Lodi.
Faceva la verduratta, che era allora povero mestiere: lo chiamava "Peppino", secondo l'italiano storpiato dai lombardi: e tutti gli altri, Peppìn, e magari anche "Pepp", che è tanto bello e veloce, ma screditato ormai dalle pochades d'osteria.
Porta Vittoria non finiva già al monumento delle Cinque Giornate, proseguiva per la campagna ricca di fossi e di fontanili.
Quando si preparava il cantiere per una case nuova, si faceva sgombro uno spiazzo e in quello giocavano al folber i fiolett della zona.
Peppìn ha dato subito la misura del suo carattere e del suo stile pretendendosi centro mediano, che nel beato calcio di quei giorni era padrone e donno del gioco (una ricerca sull'indole e poi sul carattere dei grandi campioni consentirebbe di precisare che al loro esordio hanno tutti giocato da centro mediano, center half in inglese).
Peppìn ragazzetto era gracile e denutrito. Aveva le spallucce cadenti e le ginocchia vaccine.
Sottoposto a visita scolastica, e stato trovato debole di polmoni e accolto al Trotter, che era ed e l'avveniristica scuola all'aperto dei milanesi.
Egli era dunque un esempio del nostro entozoo disastrato e tuttavia gagliardo, con dentro tanto nerbo da strabiliare chiunque lo sottovaluti (anche oggi, che aderiscono al calcio i soli rampolli del quarto e del quinto stato, di gran lunga i più numerosi a livello professionistico sono i lombardi).
Giocando da "fasso-tuto-mi" come in effetti consentiva il ruolo di centro mediano, Peppin teneva spesso la palla e quindi aveva modo di adeguare sempre meglio i suoi strani piedi e soprattutto i ginocchi alle necessita di controllo e di tocco.
Si muoveva sornione e qualche volta ingobbiva: che era il sintomo dello scatto imminente: allora, di botto, saltava tutti a sorpresa, con tanta felicita di tempo e di gesti che subito si pensava alla miracolosa trasformazione operate dal gioco su quello scorfano apparentemente negato.