Purtroppo, il calcio non è chimica. Il signor Milan intristiva fuori dei suoi panni naturali. L'esperimento fallì. Ai Mondiali dell'86, in Messico, tra i ventidue azzurri c'era un Baresi, ma era suo fratello, Beppe.
Se lo ricorda tutt'ora grato, Platini. Teoricamente, aveva ancora tempo. A Italia '90 il sogno svanì ai rigori; a Usa '94 pure. Il signor Milan, dato per disperso dopo un grave infortunio, prodigiosamente si ripresentò alla finalissima, per riscuotere il dovuto. Fu commovente, il migliore in campo, poi buttò via il primo rigore e pianse. Peccato non sia previsto il titolo mondiale honoris causa, come certe lauree.
Il signor Milan è stato fedele e grande nella buona e nella cattiva sorte. Prima dei trionfi berlusconiani, è sceso due volte in serie B, a bere l'amaro calice.
Poteva abbandonare la nave, in tanti erano disposti a fargli ponti d'oro. Ma ha questo di antico, il signor Milan: il culto del calciatore bandiera, che pure nei tempi si è fatalmente perduto, il patto di sangue con una maglia e i suoi colori. Da quelle retrocessioni è tornato più forte e completo, anche dentro. Eppure questo campione che come nessuno si è identificato nella squadra, ha un rapporto difficile con la leggenda.
C'è stato il Milan del Gre-No-Li e poi il Milan di Rivera, quello che andava ad esaurirsi quando il giovane Franz muoveva i primi passi. Poi è arrivato il Milan dei Sacchi, poi il Milan degli olandesi. Forse perchè il suo arco è così ampio, si stenta a definire il Milan di Baresi.
Che è invece un campione storico e universale, nato nella zona di Liedholm, tatticamente riverniciato più volte, contemporaneamente leader, e con l'identica disinvoltura, del Milan futuribile di Sacchi e della nazionale italiana di Vicini, capace quindi di imporsi lui al modulo e non viceversa.
Quando riscriveranno la storia del calcio, i posteri ci accuseranno di non aver capito sino in fondo la grandezza di Franco Baresi, il signor Milan.
Adalberto Bortolotti Corriere dello Sport Stadio
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